Era agosto e la canicola come sempre spingeva ad andare verso l’alto. Così partiamo in cinque, con la speranza che una volta arrivati su, a quota 2.793 m s.l.m., il bivacco potesse ospitarci. L’alternativa sarebbe stata all’addiaccio, a cui comunque eravamo preparati. Salendo non ho pensato “Oddio, se il bivacco è pieno come si fa!”, ma ho goduto di tutte le fatiche e le meraviglie che la maestosa Majella offre ai suoi ospiti: grandi branchi di cervi a spasso e forse in cerca di acqua, camosci oziosi a picco su spettacolari anfiteatri carbonatici, rocce multiformi a scrutare ogni passo dell’uomo, e mughete profumate ovunque, fin dove la montagna non diviene essenziale e ti costringe ad un dialogo incessante tra te e te, e tra te e lei.
Poi finalmente siamo arrivati, con i corpi sfatti dalla fatica, le forze al minimo e con quel miscuglio di tumulto e pace che caratterizza certe scalate, e che non puoi gestire perché negli occhi hai le scintille.
Un deserto di pietre, con un monolocale in acciaio sarebbe stata la nostra notte, e un vento eterno, quasi primordiale. Il bivacco con i posti letto già tutti occupati, ci lascia libero il suo pavimento in legno, segnato da passi di scarponi e chiusure lampo di sacchi a pelo.
La notte non chiusi occhio, qualsiasi rumore o movimento veniva registrato dalla mente, nel tentativo di usare i disturbi come sonniferi. Invece mi alzo alle 3:30 e vado fuori, in cerca del vento che sentivo solo fischiare da dentro l’acciaio come un treno a vapore. Quel vento freddo della notte che respinge il mattino, che ribadisce ad ogni soffio di essere il re, il sovrano delle vette.
Nelle notti come quelle, in cui l’orizzonte è lontano e l’oscurità incombe, non ti chiedi nulla. Le cose della vita sono sospese, e le luci delle città dormono sonni infiniti.
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